mercoledì 11 gennaio 2017

Nomi propri

Si sentiva fino al quarto piano il portiere di notte che litigava con i parenti in Egitto, tutti accalcati davanti alla webcam. 
Il palazzo si innalzava su un trafficato viale milanese che a quell'ora tirava il fiato dopo un'altra giornata di clacson, frenate e accelerate. Le auto erano spente, parcheggiate, le serrande abbassate, i semafori lampeggianti, i lampioni sbiaditi nella nebbia e la gente nascosta dietro le finestre. Era l'ora del riposo per tutta la città, tranne per il portiere di notte che gridava contro il computer un po' in egiziano e un po' in italiano.
Si faceva chiamare Giuseppe. Il suo primo datore di lavoro in Italia non era mai riuscito a pronunciare il suo vero nome e ogni giorno, per mesi, gliene aveva dato uno diverso. Alla fine aveva sbuffato: «Senti, ti chiamerò Giuseppe» e quello gli era rimasto. 
Litigavano per i soldi, Giuseppe e i parenti stipati nello schermo che illuminava la guardiola, loro spendevano troppo e chiedevano ancora. 
Quattro piani più in alto, Buonasera Avvocato e Buonasera Signora intuivano spezzoni di discussione. L'avvocato ripiegò il giornale sul comodino e cercò la moglie tra il cuscino e la copertina di un libro appassionante. «Gli hai detto che ha una colazione pagata?» 
Buonasera Signora spuntò dalle pagine. «Sì, ma non l'ha mai consumata perché non ha capito in quale bar.» 


Questa storiella non ha un finale, né una morale. Ve l'ho raccontata più o meno come l'ho sentita dalla coppia del quarto piano che, prima di trasferirsi a Milano, abitava vicino a me. Ve l'ho raccontata perché mi ha fatto pensare che dietro ogni nome c'è una persona e c'è una storia, qualche volta ci si ferma al nome.

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