Sul blog di Michele Scarparo, qualche
giorno fa, si discuteva di dialoghi e si prendeva ad esempio una lite
coniugale. Mi è subito venuto in mente lo scontro tra il Capitano
Renaud e la moglie Yvonne in Tempesta di Roger Vercel che riporto di seguito.
A mio parere, rende alla perfezione quei litigi
che pretendono di chiarire una situazione, mentre i due non si
ascoltano o perlomeno capiscono l'uno delle parole dell'altro solo
ciò che è utile a ribattere e dello stato d'animo altrui
percepiscono solo la rabbia superficiale. Molto realistico.
Poi c'è tutta la parte di non detto, ma solo pensato che l'autore ci rivela tra una battuta e l'altra, un filtro che può essere caratteriale o di circostanza tra ciò che si pensa e ciò che esce dalla bocca.
Poi c'è tutta la parte di non detto, ma solo pensato che l'autore ci rivela tra una battuta e l'altra, un filtro che può essere caratteriale o di circostanza tra ciò che si pensa e ciò che esce dalla bocca.
Ci sarebbero mille altri aspetti di questo estratto sui quali discutere, ma mi limito a
ricopiarlo per vostro diletto e riflessione.
“Ma su, ammettilo che
sei esasperato! Se sapessi come lo nascondi male! Passi tutte le tue
giornate alla finestra, a spiare il tempo, ad aspettare un sos che ti
sciolga dal dovere di stare a casa senza che io possa rimproverarti
nulla... Non è forse vero?”
Era talmente poco
preparato a un attacco che fece un altro passo indietro: “Che ho
detto? Che ho fatto?”
Lei sorrise amaramente,
un sorriso che Renaud vedeva su di lei per la prima volta e che lo
preoccupò più dell'apparizione in mare di uno scoglio dimenticato
sulla carta.
“Niente! Non hai detto
niente. Non apri più bocca! Hai fatto tutto quel che c'era da fare,
ma con che faccia, santo cielo! Non scrollare le spalle! Preferirei
che lo ammettessi apertamente, che mi dicessi: 'Senti, non è roba
per me misurare la medicina nei cucchiai. Non volermene, ma mi annoio
e me ne vado'. Sì, lo preferirei!”.
Irremovibile, lui rese
giustizia a sé stesso: “Sono consapevole di aver fatto tutto quel
che dovevo fare!”.
Si era infatti imposto
delle consegne di malattia, come se fossero consegne di bordo, e le
aveva rigorosamente rispettate.
Yvonne, le mani
appoggiate sul tavolo, si alzò per metà, e l'indignazione le
infiammò le guance: “Quel che dovevi! Sei arrivato al punto di
fare il conto di quel che devi! Quando io non oso nemmeno più
dirti di aprire un armadio, di chiudere una finestra, di portare un
piatto! Poverino! Se solo facessimo il calcolo di quel che devi,
come dici tu! Ti sei anche solo accorto che per vent'anni ti sei
preso tutto lo spazio, tutto! Che hai disposto della mia vita, dei
miei gusti, senza mai chiederti, tanto lo trovavi naturale, se non
avessi preferito... non so, qualcosa di diverso...”.
A testa bassa, come se
volesse sferrare un brutto colpo, così bassa da tendergli al massimo
i muscoli della nuca, replicò con i suo tono più scontroso: “Hai
aspettato un bel po' per farmi sapere che ti ho resa infelice! Una
bella sorpresa!”.
“No... Non sono stata
infelice, e lo sai bene! Ma ti dirò quello che è successo. Quando
mi sono ammalata sono stata costretta, per la prima volta, a vivere
un po' per me stessa, con tutti i miei dolori, tra queste quattro
mura, sono stata costretta a pensare un po' a me stessa, e questo tu
non l'hai accettato... E poi ero così spossata, avevo la testa così
vuota, che non ho sempre potuto interessarmi ai tuoi affari come
facevo prima, e tu me ne hai serbato rancore... Sì... Sì! Ma
soprattutto, ho pur dovuto chiederti di darmi una mano, per le
faccende domestiche... Il meno possibile, e tuttavia non potevo
pensare che ti sarebbe costato aiutarmi...”.
Lui esclamò, con
cattiveria, irremovibile sull'interpretazione restrittiva del suo
dovere, intransigente come quando piegava un armatore con un fatto
indiscutibile: “Che mi sia costato o no, l'ho fatto. Allora?”
“Allora”, gridò lei,
“non voglio più le elemosine che mi getti da quando sei tornato da
Parigi! Una mendicante che non si osa mettere alla porta, ecco cosa
sono diventata in casa mia! Vivi qui come un estraneo in un brutto
albergo obbligato a svolgere una parte del servizio... Allora ti
prego, finché ho ancora la forza di conservare un po' di orgoglio,
parti!”.
Lui ringhiò, minaccioso:
“Non ti consiglio di ripetermelo troppo spesso!”.
Ma lei non lo sentì,
tanta era la premura e la foga che metteva nello stanarlo, nel
gettargli addosso mucchi di negligenze, di sbagli, di mancanze che
aveva constatato, scusato, coperto per vent'anni, ma che non aveva
più la forza di dissimulare. Così, una stoffa consumata fino alla
trama lascia passare il vento e il freddo...
“Non ho mai contato
veramente per te! Anzi, sì: ho contato come un mobile, per l'utilità
o il piacere che ricavavi da me... Avevo una sola ragione d'essere
per te: renderti la vita piacevole a terra... Ma poi, a questa vita,
alla tua casa, ti ci sei mai affezionato davvero? Osa un po' dire di
sì!”.
Lui mormorò: “Se mi ci
fossi affezionato, come dici, non avrei mai potuto ripartire...”.
Della maldestra
ammissione, le non avvertì che l'insulto. Lui voleva solo fare
presente che a un marinaio è proibito abbandonarsi senza riserve a
dei beni che riceve soltanto in prestito...
“Perché ti sei
sposato, allora?”, gridò lei. “Quando si è decisi a non dare
niente, non si chiede tutto agli altri. Io, questo, lo chiamo rubare,
mi senti?”
Renaud non rispose nulla,
perché era stata ingiusta: del suo successo, del suo denaro, della
sua reputazione, lei non ne aveva forse goduto quanto lui, non aveva
forse partecipato per metà, in tutto? Il suo più grande piacere non
sempre stato quello di tagliarle una fetta più grande che a sé
stesso? Ad ogni successo, pensava: “Sarà contenta”... Se anche
l'aveva monopolizzata, come gli rimproverava, quello non era il suo
modo di farle approfittare di tutto? Con un paio di stivali, una
vecchia cerata, lui era pronto a salpare! Il resto era comunque per
lei! Nel constatarlo, ritrovava la calma, come gli succedeva tutte le
volte che la rabbia o l'irritazione facevano lanciare il suo
avversario in esagerazione irragionevoli. “Certo”, pensò, “è
stata la moglie più devota che ci sia, ma vi trovava il suo diletto,
come per me è sempre stato un piacere accontentarla...”.
Giungeva all'improvviso
davanti alla realtà stessa dell'amore che attraverso gli altri non
vede che sé stesso e, amando, non certa nient'altro che il godimento
di amare. Subito disgustato da quel garbuglio, scrollò le spalle:
“Tutto questo è un parlare tanto per parlare!”.
Mi fermo qui, ma potrei continuare a
ricopiare tutto il libro perché i paragrafi e capitoli precedenti e
i paragrafi e capitoli successivi sono altrettanto belli e forti. Non
c'è una riga in tutto il romanzo che non mi abbia rapita, tenendo in
ostaggio la mia mente tra piacere e riflessione.
Trovate questo
libro, leggetelo e conservatelo.
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