venerdì 20 gennaio 2017

Dialogo tempestoso


Sul blog di Michele Scarparo, qualche giorno fa, si discuteva di dialoghi e si prendeva ad esempio una lite coniugale. Mi è subito venuto in mente lo scontro tra il Capitano Renaud e la moglie Yvonne in Tempesta di Roger Vercel che riporto di seguito. 
A mio parere, rende alla perfezione quei litigi che pretendono di chiarire una situazione, mentre i due non si ascoltano o perlomeno capiscono l'uno delle parole dell'altro solo ciò che è utile a ribattere e dello stato d'animo altrui percepiscono solo la rabbia superficiale. Molto realistico.
Poi c'è tutta la parte di non detto, ma solo pensato che l'autore ci rivela tra una battuta e l'altra, un filtro che può essere caratteriale o di circostanza tra ciò che si pensa e ciò che esce dalla bocca.
Ci sarebbero mille altri aspetti di questo estratto sui quali discutere, ma mi limito a ricopiarlo per vostro diletto e riflessione.




“Ma su, ammettilo che sei esasperato! Se sapessi come lo nascondi male! Passi tutte le tue giornate alla finestra, a spiare il tempo, ad aspettare un sos che ti sciolga dal dovere di stare a casa senza che io possa rimproverarti nulla... Non è forse vero?”
Era talmente poco preparato a un attacco che fece un altro passo indietro: “Che ho detto? Che ho fatto?”
Lei sorrise amaramente, un sorriso che Renaud vedeva su di lei per la prima volta e che lo preoccupò più dell'apparizione in mare di uno scoglio dimenticato sulla carta.
“Niente! Non hai detto niente. Non apri più bocca! Hai fatto tutto quel che c'era da fare, ma con che faccia, santo cielo! Non scrollare le spalle! Preferirei che lo ammettessi apertamente, che mi dicessi: 'Senti, non è roba per me misurare la medicina nei cucchiai. Non volermene, ma mi annoio e me ne vado'. Sì, lo preferirei!”.
Irremovibile, lui rese giustizia a sé stesso: “Sono consapevole di aver fatto tutto quel che dovevo fare!”.
Si era infatti imposto delle consegne di malattia, come se fossero consegne di bordo, e le aveva rigorosamente rispettate.
Yvonne, le mani appoggiate sul tavolo, si alzò per metà, e l'indignazione le infiammò le guance: “Quel che dovevi! Sei arrivato al punto di fare il conto di quel che devi! Quando io non oso nemmeno più dirti di aprire un armadio, di chiudere una finestra, di portare un piatto! Poverino! Se solo facessimo il calcolo di quel che devi, come dici tu! Ti sei anche solo accorto che per vent'anni ti sei preso tutto lo spazio, tutto! Che hai disposto della mia vita, dei miei gusti, senza mai chiederti, tanto lo trovavi naturale, se non avessi preferito... non so, qualcosa di diverso...”.
A testa bassa, come se volesse sferrare un brutto colpo, così bassa da tendergli al massimo i muscoli della nuca, replicò con i suo tono più scontroso: “Hai aspettato un bel po' per farmi sapere che ti ho resa infelice! Una bella sorpresa!”.
“No... Non sono stata infelice, e lo sai bene! Ma ti dirò quello che è successo. Quando mi sono ammalata sono stata costretta, per la prima volta, a vivere un po' per me stessa, con tutti i miei dolori, tra queste quattro mura, sono stata costretta a pensare un po' a me stessa, e questo tu non l'hai accettato... E poi ero così spossata, avevo la testa così vuota, che non ho sempre potuto interessarmi ai tuoi affari come facevo prima, e tu me ne hai serbato rancore... Sì... Sì! Ma soprattutto, ho pur dovuto chiederti di darmi una mano, per le faccende domestiche... Il meno possibile, e tuttavia non potevo pensare che ti sarebbe costato aiutarmi...”.
Lui esclamò, con cattiveria, irremovibile sull'interpretazione restrittiva del suo dovere, intransigente come quando piegava un armatore con un fatto indiscutibile: “Che mi sia costato o no, l'ho fatto. Allora?”
“Allora”, gridò lei, “non voglio più le elemosine che mi getti da quando sei tornato da Parigi! Una mendicante che non si osa mettere alla porta, ecco cosa sono diventata in casa mia! Vivi qui come un estraneo in un brutto albergo obbligato a svolgere una parte del servizio... Allora ti prego, finché ho ancora la forza di conservare un po' di orgoglio, parti!”.
Lui ringhiò, minaccioso: “Non ti consiglio di ripetermelo troppo spesso!”.
Ma lei non lo sentì, tanta era la premura e la foga che metteva nello stanarlo, nel gettargli addosso mucchi di negligenze, di sbagli, di mancanze che aveva constatato, scusato, coperto per vent'anni, ma che non aveva più la forza di dissimulare. Così, una stoffa consumata fino alla trama lascia passare il vento e il freddo...
“Non ho mai contato veramente per te! Anzi, sì: ho contato come un mobile, per l'utilità o il piacere che ricavavi da me... Avevo una sola ragione d'essere per te: renderti la vita piacevole a terra... Ma poi, a questa vita, alla tua casa, ti ci sei mai affezionato davvero? Osa un po' dire di sì!”.
Lui mormorò: “Se mi ci fossi affezionato, come dici, non avrei mai potuto ripartire...”.
Della maldestra ammissione, le non avvertì che l'insulto. Lui voleva solo fare presente che a un marinaio è proibito abbandonarsi senza riserve a dei beni che riceve soltanto in prestito...
“Perché ti sei sposato, allora?”, gridò lei. “Quando si è decisi a non dare niente, non si chiede tutto agli altri. Io, questo, lo chiamo rubare, mi senti?”
Renaud non rispose nulla, perché era stata ingiusta: del suo successo, del suo denaro, della sua reputazione, lei non ne aveva forse goduto quanto lui, non aveva forse partecipato per metà, in tutto? Il suo più grande piacere non sempre stato quello di tagliarle una fetta più grande che a sé stesso? Ad ogni successo, pensava: “Sarà contenta”... Se anche l'aveva monopolizzata, come gli rimproverava, quello non era il suo modo di farle approfittare di tutto? Con un paio di stivali, una vecchia cerata, lui era pronto a salpare! Il resto era comunque per lei! Nel constatarlo, ritrovava la calma, come gli succedeva tutte le volte che la rabbia o l'irritazione facevano lanciare il suo avversario in esagerazione irragionevoli. “Certo”, pensò, “è stata la moglie più devota che ci sia, ma vi trovava il suo diletto, come per me è sempre stato un piacere accontentarla...”.
Giungeva all'improvviso davanti alla realtà stessa dell'amore che attraverso gli altri non vede che sé stesso e, amando, non certa nient'altro che il godimento di amare. Subito disgustato da quel garbuglio, scrollò le spalle: “Tutto questo è un parlare tanto per parlare!”.


Mi fermo qui, ma potrei continuare a ricopiare tutto il libro perché i paragrafi e capitoli precedenti e i paragrafi e capitoli successivi sono altrettanto belli e forti. Non c'è una riga in tutto il romanzo che non mi abbia rapita, tenendo in ostaggio la mia mente tra piacere e riflessione. 
Trovate questo libro, leggetelo e conservatelo.

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