Il
terzo libro estratto dalla mia lista
di lettura non mi ha entusiasmato come credevo. No
way down di
Graham Bowley, giornalista del New
York Times,
racconta una delle peggiori tragedie dell'alpinismo: la notte del 1
agosto 2008 ventiquattro scalatori di quindici diverse spedizioni
internazionali partirono contemporaneamente all'attacco della vetta
del K2 e solo tredici di loro fecero ritorno.
Negli
Stati Uniti questo libro ha avuto un enorme successo ed è stato
presentato come una cronaca elettrizzante quanto un romanzo
d'avventura. A me, invece, non è piaciuto così tanto. Per
quanto i fatti narrati siano drammatici, la forza della storia è
smorzata dallo stile distaccato di chi la racconta. È la ricerca di
un giornalista e non aveva la pretesa di essere altro, ma mi
aspettavo di sentirmi maggiormente coinvolta.
Bowley ha
fatto un gran lavoro di indagine, intervistando i sopravvissuti,
informandosi presso esperti di alpinismo e del K2 e, in appendice al
volume, spiega di essersi trovato di fronte a versioni contrastanti
degli stessi episodi, così ha cercato di fornire quella più
attendibile secondo le prove e le testimonianze, anche se non sapremo
mai la verità su alcuni momenti oscuri e sulle morti cancellate
dalla furia di una montagna assassina che ha inghiottito cadaveri e
pensieri.
Quando
si tratta di traduzioni non si è mai certi che lo stile dell’autore
rimanga intatto rispetto all'originale, comunque Bowley è un
giornalista e la sua narrazione risulta molto semplice, asciutta,
povera di emozioni. Probabilmente era proprio questo il suo intento:
riportare i fatti come gli sono stati raccontati, rendendo il testo
fruibile da chi non ha dimestichezza con i termini e gli aspetti
tecnici dell'alpinismo. Nulla di più.
La vetta del K2 - 8.611 m |
Io
ho una visione forse troppo romantica e poetica delle imprese
avventurose, ma la carenza di approfondimenti psicologici e le scarne
descrizioni dei panorami hanno avuto l'effetto di escludermi dalla
storia anziché farmela vivere. Di questa lettura mi
resta la sensazione di una mancanza di emotività che, ripeto, avrei
dovuto aspettarmi da un giornalista, eppure l’argomento è una
tragedia e il K2 è un mostro di roccia e ghiaccio appena più basso
dell’Everest, più cattivo, impervio, tormentato dal maltempo e,
per chi ci crede, da spiriti maligni. Con tali premesse, non
immaginavo che fosse affidato al lettore lo sforzo di fantasia
necessario a calarsi nei panni degli sventurati alpinisti. Bowley si
limita a esporre i fatti e non è interessato all'aspetto umano e
passionale della vicenda, alle motivazioni che spingono uno scalatore
a rischiare la vita per conquistare una vetta, al dolore per la
perdita di un compagno, alla violenta bellezza della natura, alla
fatica di continuare la discesa per mettersi in salvo con la
consapevolezza di aver lasciato indietro qualcuno, al tormento di
notti all'addiaccio a venti gradi sotto zero e senza ossigeno, alla
paura, all'istinto di sopravvivenza. Si sorvola su tutto questo in
poche righe e si perde così l'empatia con il lettore.
Nonostante
l'autore abbia cercato di rendere il libro più avvincente scandendo
i capitoli con le ore che passavano, in una sorta di conto alla
rovescia verso la catastrofe, e abbia inserito brevi presentazioni
degli scalatori, con qualche riga sul loro passato, nel tentativo di
dare spessore ai protagonisti, No way down è
scritto da qualcuno che non era lì e non mi ha conquistata.
Al prossimo libro!
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