giovedì 29 giugno 2017

Occhi

Succede che per giorni nessuno mi guardi negli occhi. All'inizio, credevo fosse una mia impressione, di quelle cose che pensi e ti chiedi come mai ti vengono certi pensieri. Ci ho fatto caso per qualche giorno: di tutte le persone che ho incontrato, nessuna mi ha guardato negli occhi. E per guardarmi negli occhi non intendo solo fisicamente, capisco quando qualcuno mi scrive un messaggio, una mail o mi telefona e mentre mi parla non mi sta guardando negli occhi. Ho trovato un motivo per ogni persona e per ognuna saprei dire esattamente dove guarda, mentre mi scrive, mi parla o mi ascolta, se sta ascoltando. Non mi sto lamentando, anzi, gli occhi servono per le cose importanti. Capita, però, che mi si dicano cose importanti guardando altrove, forse per poca convinzione, per insicurezza, per senso di colpa, oppure perché non sono cose del tutto vere, non proprio bugie, ma nemmeno pura verità così come sgorga dal cuore. 
Comunque, non lo capisco grazie a un super potere o chissà quale sensibilità speciale: è che anch'io qualche volta abbasso gli occhi.

Be', pensavo questo e mi chiedevo come mai mi vengono certi pensieri. Forse andrebbero nella pagina di annotazioni di Helgaldo.



mercoledì 21 giugno 2017

Frammenti di Legione - Egoismo

«A volte, l'egoismo è l'unica forma d'amore che rimane. Non è togliere amore agli altri, è amarsi come gli altri non sanno fare. A volte.»

Legione 4 

Antonio Renna, illustrazione per Maya


Trovate le illustrazioni per i volumi precedenti nella galleria.

lunedì 19 giugno 2017

Riflessione in parallelo

Tutti i difetti del nostro romanzo-capolavoro nella recensione di una serie tv. 
Giochiamo a sostituire la serie con la carriera di scrittore, l'episodio pilota con il romanzo d'esordio, i minuti con le pagine, gli attori con i personaggi, gli effetti speciali con lo stile, l'investimento in denaro con l'investimento in studio e impegno, e così via.
Poi facciamo del nostro meglio perché non si parli mai in questo modo di ciò che scriviamo.

«Non mi capita spesso di piantare lì un pilot prima della fine.
Voglio dire, che vuoi che siano quaranta minuti a fronte dei quaranta e passa episodi che vedo ogni settimana? Ti vedi il tuo bel pilot, lo recensisci, se t’è molto piaciuto vai avanti, se t’è piaciuto così così vai avanti lo stesso (si sa mai), se ti ha fatto schifo lo molli. Però insomma, il pilot te lo vedi tutto.
Ecco, Olympus, nuova serie epico-mitologica di SyFy, è riuscita dove altre hanno fallito: al minuto 33 ho detto basta.
Intendiamoci, non che SyFy sia una garanzia di qualità, le capita abbastanza spesso di toppare. Allo stesso tempo, però, ha anche le sue cosine carine tipo Z Nation e 12 Monkeys, e non le saremo mai grati abbastanza per Battlestar Galactica.
Ma Olympus no. Olympus non è neanche “brutta”, Olympus è “impresentabile”, che è molto diverso. È la differenza che passa tra cercare di creare un buon prodotto fallendo nel tentativo, e non rendersi conto che TUTTO quello che si sta facendo conduce inesorabilmente al fallimento.
Ho provato vero imbarazzo nel seguire quei 33 minuti. Ho pensato alle persone che lavorano alla serie, le ho immaginate tornare a casa alla sera, di fronte allo sguardo compassionevole del coniuge, e scoppiare a piangere dicendo “cosa ho fatto?”. Ho pensato al fatto che c’è chi ha speso dei soldi per fare questa cosa (comunque pochissimi) pensando davvero che qualcuno potesse dire “be’, bello”.
E ovviamente qualcuno c’è, perché se andate sulla pagina imdb della serie vedrete che un tot di persone hanno messo voti altissimi. Ma uno sguardo più attento ci mostra che sono tutte e solo ragazze sotto i diciotto anni. Cosa che comunque non mi spiego mica tanto bene, e mi inquieta anche un pochino in termini di futuro dell’umanità.
Scusate, non vi ho ancora detto di cosa parla.
In pratica c’è un giovane eroe che si chiama Hero (perché la chiarezza è importante) che all’inizio del pilot combatte contro un ciclope (il cui design, per lo meno su carta, è l’unica cosa dell’episodio che forse si salva). Lo combatte perché deve salvare una tizia, un oracolo, che poi deve riportare indietro per farsi dire delle cose, farsi aiutare con qualcosa, boh, salcazzo.
E mentre tornano indietro vengono aggrediti da due tizi assoldati all”Esselunga (e se non li hanno assoldati lì, per lo meno è lì che hanno preso i vestiti): il nostro eroe ne uccide uno, l’altro scappa e poi si scopre che è il fratello dell’oracolo. Dell’amico morto frega già niente a nessuno.
Nel frattempo vediamo altra gente, ad Atene, che si prepara per battaglie epicissime.
Il problema è che anche questi scampoli di trama sono difficili da assorbire, perché mentre la vicenda si dipana voi siete distratti dal sangue che vi esce dagli occhi.
Gli attori sono cani. Oh, ci sta, può capitare. Cioè, li hai scelti tu, non è certo colpa mia se poi ti devo insultare, ma vabbe’. Il protagonista Tom York è espressivo come un cappotto, sembra un Clark di Smallville molto più incapace, e già Tom Welling non era esattamente da oscar. Magari può pure essere considerato belloccio, ma davvero non ti ci faresti nemmeno servire l’aperitivo, penseresti che non ne è in grado.
E lui è tipo il più bravo.
Tutta la storiella è poco interessante, e si vede chiaramente il tentativo di scrivere uno show che, come altre serie contemporanee, metta insieme spunti presi da ogni dove. Da Once Upon a Time a Game of Thrones, seppur in modi diversissimi, molti telefilm giocano con i generi e con i personaggi, assecondando certe regole e infrangendone altre. Un metodo molto metatestuale che spesso funziona. Qui invece bastano quattro minuti perché della vita e della sorte di Hero non ce ne freghi assolutamente nulla, perché abbiamo la chiara percezione che se lui morisse non cambierebbe niente a nessuno.
Ma fin qui siamo ancora nell’ambito del brutto. Attori cani che recitano dialoghi spompi dentro trame poco interessanti: siamo effettivamente nel regno della bruttezza.
Ma questo è niente. Olympus diventa impresentabile quando le cose epiche vuole farle “vedere”. Siamo in una serie che parla di antichi eroi, dèi poderosi, mostri famelici ed eserciti in tanga. Insomma, sono cose che richiedono un certo livello di effetti speciali, una regia di un certo tipo. Tutt’intorno, nel resto del mondo cine-televisivo, ci sono i draghi di Game of Thrones, c’è 300, c’è pure Ray Palmer che fa Iron Man in Arrow. Insomma, il livello visivo delle serie cresce, bisogna starci dietro.
Da questo punto di vista, Olympus fallisce ogni volta che può.
Ogni.
Volta.
Sembra Hercules del 1995, ma neanche, almeno Hercules andavano a girarlo al parco e così avevano gli esterni. Qui è tutto un green screen evidentissimo, come quando si andava a Gardaland a farsi i video sul tappeto volante: ventimila lire e via, sei Aladino. Facevi anche finta di indicare un punto del suolo, laggiù in basso, quando in realtà indicavi le scarpe dell’addetto alla macchinetta, che alle undici del mattino ne aveva già pieni i coglioni dei bambini che gli indicavano le scarpe facendo finta che fossero casa loro vista dall’alto. Ma comunque era una cosa che facevi vedere a tua zia, non la mandavi in onda in tv. Se la fai vedere a tua zia sei tenero, se la mandi in onda sei imbecille.
Praticamente tutte le inquadrature di Olympus gridano vendetta. Una pochezza di mezzi e di idee che mette francamente a disagio. Una sensazione già non positiva, che viene ulteriormente acuita da alcuni momenti di spudorata copia: ad esempio quei ralenty simil-Spartacus, in cui però lo sfondo continua a essere disegnato coi pastelli a cera.
Ecco, magari se vai dai produttori di sta roba e glielo chiedi, ti dicono pure che sono tutte scelte stilistiche, insomma volute. E tu ridi, ridi, ridi…
Alla fin fine, cercando di recuperare un po’ di compostezza dopo che questi marrani mi hanno strappato 33 minuti di vita, credo che il problema di fondo sia uno: per fare Olympus hanno speso ventisei euro a episodio. No, non è un dato ufficiale, è una mia personale stima. Perché di certo manca la creatività e mancano gli attori e manca tutto, ma è davvero inaccettabile che una rete importante come SyFy si presenti al pubblico con una cosa che sembra un progetto scolastico delle medie girato col cellulare di due generazioni fa.
Eddai su, io sono anche uno a cui non piace infierire, però cazzo, la dignità è una roba importante.» 

Diego Castelli per Serial Minds, 2015

giovedì 15 giugno 2017

Leggere con i bambini

Mamma Elisa: «Vedi? Qui il bambino si è fatto la bua. Ci sono tanti modi per consolarlo: un abbraccio, un biscotto, un cerotto... E a te, Penelope, cosa serve quando ti fai la bua?»
Penelope, tre anni: «Mi serve che mi passi.»

Gli scrittori a ricamare una storia di dolore e poi abbracci, biscotti e cerotti che lo fanno passare. Lei, chiara, logica, efficace, di ricamato ha solo il nome sul bavaglino.



martedì 13 giugno 2017

Cosa ho letto in viaggio

Nei tre mesi che ho trascorso parlando, e col tempo anche pensando, tutto il giorno in inglese o nel mio scarso indonesiano, la sera mi veniva una gran voglia di leggere in italiano. Se c'era la possibilità di connettermi a Internet, cominciavo dai blog e dalle discussioni sotto i post anche se mi trovavo nel fuso orario sbagliato per partecipare; poi leggevo notizie sul resto del mondo, solitamente sul sito di Internazionale; ma soprattutto entravo nella biblioteca invisibile del mio Kindle.

Mi accorgo ora, nel parlarvi di cosa ho letto, che mi sono dedicata a libri di scrittori stranieri, perciò tradotti e non pensati in italiano. Nell'elenco avevo a disposizione anche italiani puri, ma come faccio sempre ho scelto in base all'estro del momento e non al nome dell'autore. Alla fine ho letto un saggio, un romanzo, un racconto e un libro per ragazzi. Qualcuno dirà che è poca roba in tre mesi, ma io leggo senza fretta e mi addormento con in testa tutte le riflessioni che un buon libro riesce a darmi in poche pagine, e sono stata fortunata nella scelta perché ognuno di questi mi ha dato, a suo modo, da pensare. Come sempre, non mi soffermerò sulle trame che potete trovare ovunque, ma vi darò mie impressioni.

Collasso. Come le civiltà scelgono di morire o vivere di Jared Diamond
Come ogni saggio, un libro del genere si affronta solo se il tema ci appassiona e su di me le indagini archeologiche, geologiche, ambientali, culturali sulla storia dell'umanità hanno l'effetto di un romanzo d'avventura. Il bello di questo libro sono i continui accostamenti al presente che avvicinano situazioni e vicende antiche alla nostra realtà attraverso errori ripetuti per lezioni dimenticate. La lettura mi è parsa scorrevole, forse perché non è il primo saggio del genere che leggo, ma anche i passaggi più tecnici sui dati e gli studi scientifici sono esposti con chiarezza e con uno stile che non annoia. È una ricerca interessante che analizza il fallimento o il successo delle civiltà prese in esame considerando cinque fattori chiave (gestione delle risorse disponibili, mutamenti climatici, rapporti con popolazioni confinanti, relazioni con popoli ostili, capacità politica e culturale di affrontare una crisi) e il peso che ognuno ha avuto o meno nella loro storia, la nostra storia. Un pensiero che mi sono portata a letto? L'immagine dell'abitante dell'Isola di Pasqua che tagliò l'ultimo albero.

Factotum di Charles Bukowski
Nelle vesti del suo alter ego Henry Chinaski, lo scrittore si presenta come il peggior tipo di essere umano: pigro, alcolizzato, irresponsabile, senza ambizione. Bukowski parla, scrive, come mangia e con le pagine si pulisce la bocca, poi rutta. Non vuole insegnare, racconta soltanto, ma così insegna. Entrando nella vita di Henry, giorno per giorno, attimo per attimo, si sperimentano brutte sensazioni, è una vita senza scopo, sporca, incerta, misera e abbastanza disgustosa. Ma dentro si nascondono pensieri conosciuti da tutti e mai ammessi, e quando ci accorgiamo che sono vicini a certi nostri momenti, be' miei almeno, ne proviamo vergogna. Eppure, in quel fondo che non vorremmo mai toccare, brillano scintille di poesia, sfacciate quanto il resto. Scrittura semplice e intelligente, l'ho apprezzato tantissimo.

Il guardiano del faro di Henryk Sienkiewicz
Questo è un racconto lungo conosciuto grazie a un post sul blog Da dove sto scrivendo e mi è parso da subito il mio genere di lettura. Infatti, mi è piaciuto molto, anche se alcuni concetti potevano essere rimarcati una volta di meno. Lo stile è perfetto per la storia (o è il contrario?) e il fatto che me lo aspettassi com'è non ha reso la lettura meno piacevole, era quello che desideravo e l'ho ottenuto. Mi sono un po' rivista nel protagonista che cerca la solitudine per guardare da lontano la vita che ha vissuto. Lui desidera pace e stabilità dopo aver tanto lottato col destino, io sto ancora lottando, ma comprendo il bisogno di fermarsi ogni tanto e osservare soltanto. C'è poi una sensazione che, con le dovute proporzioni rispetto alla scena narrata nel racconto, ho provato in prima persona: l'emozione, a cui accennavo sopra, di leggere nella propria lingua dopo averne parlate tante straniere. Non mi sbagliavo, è stata una lettura adatta a me.

Sette minuti dopo la mezzanotte di Patrick Ness
Ho scoperto a lettura ultimata che da questo libro è stato tratto un film, ma tanto è sempre meglio il libro. L'ultima volta che ho letto un romanzo per ragazzi sono rimasta abbastanza delusa, ma è un genere che spesso mi ha regalato titoli per la lista dei preferiti e non considero narrativa di serie b solo perché rivolta a un pubblico giovane. Il bello di Ness è che scarta con abilità e delicatezza tutte le soluzioni più ovvie, mi ha fatto credere di intuire il passo successivo riconoscendo un cliché per poi sorprendermi scardinandolo. Purtroppo la scrittura – o la traduzione, dovrei rileggerlo in lingua originale per giudicare – è andata peggiorando proprio nel momento più intenso e toccante della trama. Il cuore del lettore, catturato con maestria e portato al punto più alto di coinvolgimento, subisce una brusca frenata: la scena madre è tirata troppo per le lunghe, la frase chiave, rivelatrice del significato dell'incubo vissuto dal protagonista, è ripetuta più volte con l'effetto di smorzarne il potere. Può darsi che dipenda dal lettore tipo, un adolescente, nella mente dello scrittore, forse un ragazzo ha bisogno di sentirlo raccontare in quel modo, mentre a un adulto, con più esperienza e malizia, basta qualcosa in meno per capire. In ogni caso, molto bello.

venerdì 9 giugno 2017

A proposito di verità

«Le cose non devono essere accadute per essere vere. Le storie e i sogni sono le verità-ombra che perdureranno quando i meri fatti saranno polvere e cenere. E dimenticati.»

Neil Gaiman


mercoledì 7 giugno 2017

Legione e onestà

Una conversazione virtuale con Fabio di Librinviaggio mi ha dato lo spunto per informarvi sul futuro di Legione

Lo scambio di battute che vedete nell'immagine è nato da questa sua recensione e mi ha dato conferma della correttezza di una decisione che ho maturato negli ultimi mesi riguardo la mia serie di romanzi: il prossimo libro sarà l'ultimo.

Sì, quella che doveva essere una serie di cinque si è trasformata in una quadrilogia, e ve ne spiego il motivo. Ogni romanzo di Legione è autoconclusivo, ma il filo che lega ogni trama è la storia dell'organizzazione segreta della quale fanno parte tutti i protagonisti. Quella storia ha un finale nella mia testa fin dal primo libro e nella trama di ogni episodio ho seminato dettagli che conducono a un'unica grande conclusione nella quale le singole vicende assumono un senso più ampio, ognuna prende il proprio posto in un panorama visto dall'alto.

Nell'ultimo anno ho lavorato contemporaneamente al quarto e quinto volume che, ambientato nel futuro, racconta un mondo nuovo, conseguenza e risultato delle vicende narrate nei precedenti e così compone quel panorama visto dall'alto. Chi ha letto i primi tre libri conosce la struttura di questi romanzi: i capitoli alternano il presente del protagonista e il passato dell'organizzazione che influisce sulla trama principale. Durante la stesura di questi ultimi due, però, mi sono resa conto che stavo tagliando molti capitoli del quarto per usarli come flashback del quinto. Non volevo anticipare al lettore informazioni che andavano rivelate nell'episodio finale, ma così facendo la trama del quarto risultava impoverita al punto che mi sono trovata a un bivio: aprire nuove sottotrame nel passato oppure fondere i due episodi che, in fondo, nascevano già legati tra loro in maniera più evidente rispetto ai precedenti. Ho scelto la seconda via perché, tornando al discorso con Fabio, è la più onesta. Stavo spezzando in due volumi una trama che si presentava spontaneamente unica e, al di là della stonatura che infastidiva me per prima, non c'era motivo di far uscire due libri annacquati al posto di uno saporito. 

Gli esperti di marketing si staranno strappando i capelli: perché vendere un libro quando potresti venderne due? Perché io non faccio marketing, io scrivo. E non ho un editore che mi imponga di produrre un certo numero di libri in un certo periodo che io sia ispirata o meno, come credo sia accaduto all'autore che ha deluso Fabio. Io scrivo e non vorrei mai che un giorno un mio lettore si sentisse preso in giro in quel modo. 
Perciò vi mostro la bozza di copertina di Maya che sarà il quarto e ultimo libro della serie e vado a finire di lavorarci. State tranquilli: non vi annegherò in un brodo allungato e insapore se posso servirvi un piatto gustoso. Vi avviso quando è pronto in tavola.