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martedì 19 dicembre 2017

Precious Ramotswe, detective

Ho appena finito di leggere Precious Ramotswe, detective di Alexander McCall Smith, primo di una serie di libri pubblicati tra il 1998 e il 2015.
Ignoravo l'esistenza di questi romanzi, malgrado abbiano avuto un grande successo, finché un'amica me li ha consigliati e devo ringraziarla (grazie, Sonia!) per questa bellissima scoperta.

All'inizio, ho commesso un terribile errore: ho letto le prime pagine come se avessi in mano una penna rossa per segnare gli errori. Mi sono fermata subito perché mi sono accorta che mi stavo perdendo la storia, e questo è il risultato di troppe discussioni tecniche sulla scrittura, a volte utili e interessanti, ma negli ultimi tempi decisamente troppe e troppo pesanti per me. Mi stonavano alcune ripetizioni nei primi capitoli, ma mi sono ricordata com'era la realtà in Africa quando ci sono stata. All'improvviso quelle ripetizioni non stonavano più, anzi, erano in perfetto stile africano. Allo stesso modo, sono deliziosamente africani i modi, le riflessioni, le interazioni dei personaggi e mi sono ritrovata nel continente nero nel giro di poche pagine. Alla strepitosa Precious, ho dato l'aspetto, il sorriso e l'energia della mia amica Peris di Nairobi. Lungo il romanzo, ognuno dei casi che risolve è il ritratto di un pezzetto d'Africa: il rapporto tra uomini e donne, tra potenti e gente comune, tra nazioni confinanti, tra bianchi e neri, tra progresso e stregoneria.

Mi riferisco all'Africa e non solo al Botswana, dove sono ambientate le avventure della detective, perché i confini che vediamo sulle mappe sono stati stabiliti a tavolino da chi non si è mai interessato o preoccupato di capire dove fossero quelli disegnati dalla natura e dai popoli che vivono laggiù, sono linee tracciate senza tener conto né di legami né di conflitti. Quando parli con la gente del posto – o leggi la storia di Precious  ti accorgi che i diversi popoli si riconoscono e definiscono per caratteristiche differenti, tratti fisici, caratteriali, accenti, gesti, tradizioni, un po' come le peculiarità regionali in Italia, eppure tutti si sentono africani come nessuno di noi si sentirà mai europeo.

Tra le righe della storia della Signora Ramotswe, l'autore racconta tutto questo con molta delicatezza e ironia, con un linguaggio semplice, quasi da fiaba, ma molto preciso. È riuscito a coinvolgermi in riflessioni che, da una frase di due righe, sono straripate dal libro e mi hanno tenuta impegnata per ore, anche nei sogni notturni.
Vorrei che questo libro non fosse mai letto da persone superficiali, poco sensibili o povere d'immaginazione perché la sua bellezza sta nello scorrere delle parole e nei colori, anche nei passaggi in apparenza banali.
Mi è piaciuto tanto che ho già cominciato a leggere il secondo romanzo della serie  cosa insolita per me che amo alternare i generi – Le lacrime della giraffa. Si vede che non ero ancora pronta a lasciare il Botswana e la mia nuova amica Precious.

Avrei potuto scrivere un post di sole citazioni dal libro, avrei anche potuto scegliere solo questa, il padre di Precious che ricorda gli anni trascorsi a faticare nelle miniere in Sudafrica, ma sono una chiacchierona e per leggerla siete dovuti arrivare fin qui. Oppure cominciate a leggere il libro.
«Ci hanno insegnato il fungalo, il linguaggio usato per dare ordini sottoterra. È una lingua strana. Gli zulu ridono quando la sentono, perché contiene moltissime parole zulu ma non è zulu. È un linguaggio che va bene per dire alla gente cosa deve fare. Vi sono molte parole per spingere, prendere, spostare, trasportare, caricare e nessuna per amore, o felicità, o per i versi che gli uccelli fanno al mattino.»


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