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martedì 22 marzo 2016

No way down di Graham Bowley

Il terzo libro estratto dalla mia lista di lettura non mi ha entusiasmato come credevo. No way down di Graham Bowley, giornalista del New York Times, racconta una delle peggiori tragedie dell'alpinismo: la notte del 1 agosto 2008 ventiquattro scalatori di quindici diverse spedizioni internazionali partirono contemporaneamente all'attacco della vetta del K2 e solo tredici di loro fecero ritorno.

Negli Stati Uniti questo libro ha avuto un enorme successo ed è stato presentato come una cronaca elettrizzante quanto un romanzo d'avventura. A me, invece, non è piaciuto così tanto. Per quanto i fatti narrati siano drammatici, la forza della storia è smorzata dallo stile distaccato di chi la racconta. È la ricerca di un giornalista e non aveva la pretesa di essere altro, ma mi aspettavo di sentirmi maggiormente coinvolta.


Bowley ha fatto un gran lavoro di indagine, intervistando i sopravvissuti, informandosi presso esperti di alpinismo e del K2 e, in appendice al volume, spiega di essersi trovato di fronte a versioni contrastanti degli stessi episodi, così ha cercato di fornire quella più attendibile secondo le prove e le testimonianze, anche se non sapremo mai la verità su alcuni momenti oscuri e sulle morti cancellate dalla furia di una montagna assassina che ha inghiottito cadaveri e pensieri.
Quando si tratta di traduzioni non si è mai certi che lo stile dell’autore rimanga intatto rispetto all'originale, comunque Bowley è un giornalista e la sua narrazione risulta molto semplice, asciutta, povera di emozioni. Probabilmente era proprio questo il suo intento: riportare i fatti come gli sono stati raccontati, rendendo il testo fruibile da chi non ha dimestichezza con i termini e gli aspetti tecnici dell'alpinismo. Nulla di più.

La vetta del K2 - 8.611 m
Io ho una visione forse troppo romantica e poetica delle imprese avventurose, ma la carenza di approfondimenti psicologici e le scarne descrizioni dei panorami hanno avuto l'effetto di escludermi dalla storia anziché farmela vivere. Di questa lettura mi resta la sensazione di una mancanza di emotività che, ripeto, avrei dovuto aspettarmi da un giornalista, eppure l’argomento è una tragedia e il K2 è un mostro di roccia e ghiaccio appena più basso dell’Everest, più cattivo, impervio, tormentato dal maltempo e, per chi ci crede, da spiriti maligni. Con tali premesse, non immaginavo che fosse affidato al lettore lo sforzo di fantasia necessario a calarsi nei panni degli sventurati alpinisti. Bowley si limita a esporre i fatti e non è interessato all'aspetto umano e passionale della vicenda, alle motivazioni che spingono uno scalatore a rischiare la vita per conquistare una vetta, al dolore per la perdita di un compagno, alla violenta bellezza della natura, alla fatica di continuare la discesa per mettersi in salvo con la consapevolezza di aver lasciato indietro qualcuno, al tormento di notti all'addiaccio a venti gradi sotto zero e senza ossigeno, alla paura, all'istinto di sopravvivenza. Si sorvola su tutto questo in poche righe e si perde così l'empatia con il lettore.

Nonostante l'autore abbia cercato di rendere il libro più avvincente scandendo i capitoli con le ore che passavano, in una sorta di conto alla rovescia verso la catastrofe, e abbia inserito brevi presentazioni degli scalatori, con qualche riga sul loro passato, nel tentativo di dare spessore ai protagonisti, No way down è scritto da qualcuno che non era lì e non mi ha conquistata. 

Al prossimo libro!

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