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venerdì 3 febbraio 2017

Giornalisti e scrittori

Ho terminato la lettura di Vado verso il Capo di Sergio Ramazzotti.

Dal deserto all'oceano passando per la giungla solo con mezzi pubblici e passaggi, Ramazzotti incontra e racconta le storie dei suoi compagni di viaggio da Algeri a Città del Capo. Condivide autobus, cassoni di camion, vagoni di treno, furgoncini, taxi straripanti di merci e umanità con profughi, viaggiatori, commercianti, militari e disperati. Anche se scende lungo la costa ovest, gli arrivano voci da tutto il continente attraverso le persone che gli siedono accanto.
L'Africa è un continuo movimento di confini, nomi di città e intere nazioni che cambiano a seconda del potere di turno, regioni tribali che si separano e tornano a fondersi in mappe da aggiornare usando il sangue come inchiostro. Sotto numeri e linee, però, ci sono persone, interi popoli che li subiscono senza voce per gridare. La serenità non esiste, la certezza nemmeno. C'è invece la pazienza, la pazienza infinita di queste genti che impiegano una settimana a percorrere trecento chilometri per far visita alla famiglia perché le strade fanno schifo e i trasporti non funzionano per i poveri; che aspettano trenta ore la partenza di un autobus per andare a vendere il piccolo tesoro di un pezzo di ricambio per un motore che rutterà altro fumo nero nel bel cielo africano; che rimbalzano tra una frontiera e l'altra fuggendo a piedi da villaggi stritolati dai bulldozer ciechi e impazziti di guerre senza soluzione e speculazioni senza freni.

Mi ha restituito l'Africa di Kapuscinski della quale avevo nostalgia, quel meraviglioso e triste pandemonio di colori, miseria, gentilezza e corruzione. Non immaginate quanto sappia essere poetico un giornalista quando si cala nella poesia polverosa e sudata di questi luoghi, la cronaca diventa personale, il racconto imparziale si circonda di pensieri e sentimenti. È così che un giornalista si trasforma in scrittore.
Mi ero lamentata, tempo fa, di un giornalista che non si era fatto scrittore per raccontarmi una delle tragedie alpinistiche accadute sul K2, Graham Bowley con No way down. In quel caso, l'autore è rimasto freddo e distaccato lasciando anche me fredda e distaccata dopo la lettura.
L'Africa di Ramazzotti, invece, come quella di Kap, è vissuta e narrata dall'interno e dal basso. Non è un articolo di economia o politica scritto da un hotel di lusso lontano dalla gente, ma il resoconto nudo e crudo di chi si mette nei panni degli ultimi, vive in mezzo a loro, dorme schiacciato contro i loro corpi, mangia nei loro piatti, soffre caldo, freddo, fame e sete con loro, si sposta con la stessa fatica, sbatte contro gli stessi muri, subisce le stesse angherie.
Sia Ramazzotti che Kapuscinski, alla fine, provano una sorta di senso di colpa nel lasciare queste persone al loro destino e tornare a casa, colpevoli di avere una casa, acqua corrente, elettricità, lavoro, istruzione, cure mediche. Arrivano a un punto in cui non si accontentano di raccontare perché sono diventati parte della storia. Una volta provata l'essenza di quella vita ai minimi termini e averla odiata e maledetta, ne sentono la nostalgia, non sono più capaci di tornare alla condizione precedente. L'ho provato anch'io, rientrando a casa dopo viaggi – non vacanze – in luoghi remoti che mi hanno mostrato l'essenziale di me e non sono più riuscita a riconoscermi nel superfluo, perfino possedere un armadio mi pareva troppo quando per quattro mesi la mia casa era stata uno zaino. Lo descrive Ramazzotti nelle ultime righe di questo libro quando, giunto al termine del suo lungo tragitto via terra, prende l'aereo che lo riporterà in Italia:

Quando mi allaccio la cintura fuori è buio. Il comandante spegne le luci della cabina e dà un po' di gas ai quattro motori del suo Boeing. Si sente un sibilo lontano: senza fretta, rulliamo verso la testata della pista e ci allineiamo per il decollo. Un istante prima che le ruote si stacchino da terra vorrei poter scendere e andare a prendere l'autobus.”

Il modo in cui Ramazzotti mi ha raccontato questa esperienza è il modo in cui l'ho vissuta leggendo. Per me vale l'equazione: fredda cronaca = fredda impressione del lettore, apprendo nozioni e non provo nessuna emozione né empatia, dimentico; racconto personale = segno caldo nel cuore del lettore, apprendo nozioni e in più mi appassiono.

2 commenti:

  1. Grazie per la recensione. Questo è un libro di umanità e direi anche di una testimonianza del nostro tempo, che non si può non leggerlo.
    Corro a comprarlo.

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    1. È ambientato nel 1992, ma per il poco che ho potuto vedere nei miei viaggi in Africa e quello che ho letto in altri libri, città e nazioni cambiano nome, ma per la gente comune la vita scorre sempre allo stesso modo: tra difficoltà e bellezza, corruzione e pazienza, sangue e sogni. Una lettura consigliata.

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